lunedì 27 luglio 2015

ADORO MANGIARE. MANGIARE E' UN ATTO AGRICOLO ED ECOLOGICO

Adoro mangiare ma non so cosa mangio

Mangiare con gusto, liberi dall’ignoranza che fa comodo all’industria alimentare, è forse la più profonda rappresentazione del nostro legame col mondo. Chi conosce l’orto in cui la sua verdura è cresciuta, ricorderà anche la bellezza delle piante che crescono nella prima luce del mattino fra la rugiada. Una memoria simile è molto legata al cibo ed è uno dei piaceri del mangiare. Gli industriali dell’alimentazione sono riusciti a persuadere milioni di persone del vantaggio di preferire alimenti già pronti. Coltivano, cucinano, ci portano i pasti. Non ci hanno offerto cibi premasticati solo perché non hanno ancora scoperto come questo possa far aumentare i profitti. Per decenni l’intera economia alimentare dell’industria, dalle grandi aziende agricole e dai grandi allevamenti alle catene dei supermercati e dei fast-food, è stata ossessionata dai volumi. Ha ingigantito la scala per aumentare il volume della produzione allo scopo di ridurre i costi. Con l’aumento della scala, diminuiscono la varietà e la salute ma questo, per l’industria, non è un problema
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di Wendell Barry
Spesso, alla fine di una conferenza sul declino della vita rurale e dell’agricoltura in America, qualcuno dell’uditorio chiede: “Cosa può fare chi abita in città?” “Mangiare responsabilmente” rispondo di solito. Naturalmente cerco di spiegare cosa intendo con questa espressione, ma mi sembra sempre di non aver detto abbastanza. Adesso vorrei cercare di offrire una spiegazione più ampia.

Comincio dall’affermazione che mangiare è un atto agricolo ed ecologico. Mangiare conclude il dramma annuale dell’economia alimentare che inizia con la semina e la nascita. Molti mangiatori non sanno più che questo è vero. Pensano all’alimentazione come produzione agricola, forse, ma non si considerano parte dell’agricoltura.  Si considerano “consumatori”. Se pensano un po’ più a fondo, devono riconoscere di essere consumatori passivi. Comprano quello che vogliono, o quello che sono stati persuasi a volere, nei limiti di ciò che possono comprare.
Pagano, per lo più senza protestare, il prezzo che viene chiesto. E in genere non sanno nulla degli argomenti fondamentali sulla qualità e il costo di produzione di ciò che gli viene venduto: quanto sia veramente fresco, quanto sia puro o pulito, o libero da pericolose sostanze chimiche, da che distanza arriva e quanto il trasporto ha aggiunto al costo, quanto la trasformazione industriale, l’imballaggio e la pubblicità incidano sul prezzo.
Quando l’alimento è stato trasformato, manipolato o precotto, che effetti queste operazioni hanno avuto sulla sua qualità, valore nutritivo e sul prezzo? La maggior parte degli abitanti delle città che fanno la spesa dicono che gli alimenti sono prodotti nelle aziende agricole. Ma in genere non sanno quali aziende agricole, o che tipi di aziende agricole, dove si trovano, né quali conoscenze e abilità sono in gioco in agricoltura. A quanto pare non hanno dubbi sul fatto che gli agricoltori continueranno a produrre, ma non sanno come né superando quali ostacoli.
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Per loro, perciò, l’alimentazione è un’idea parecchio astratta, una cosa che non conoscono né immaginano, finché non compare sulla tavola o sullo scaffale dei prodotti alimentari. La specializzazione della produzione provoca la specializzazione dei consumi. Per esempio, i clienti abituali dell’industria del tempo libero sono sempre meno capaci di intrattenersi da soli e sono diventati sempre più passivamente dipendenti dai fornitori di divertimenti a pagamento. Ciò è sicuramente vero anche dei clienti abituali dell’industria alimentare, che hanno sempre più la tendenza a diventare dei meri consumatori, passivi, acritici e dipendenti.
Questo tipo di consumo può essere considerato sicuramente uno degli obbiettivi principali della produzione industriale. Gli industriali dell’alimentazione sono riusciti a persuadere milioni di consumatori a preferire alimenti già pronti. Coltivano, cucinano, vi portano i pasti e (proprio come la vostra mamma) vi supplicano di mangiare. Non vi offrono ancora di infilarvelo in bocca premasticato solo perché non hanno ancora scoperto un modo di farlo che permetta di aumentare i profitti. Possiamo star sicuri che sarebbero ben contenti di scoprirlo. Il consumatore industriale ideale sarebbe legato ad una tavola con un tubo in bocca che va direttamente dall’impianto alimentare al suo stomaco.
Forse esagero, ma non di molto. Il mangiatore industriale infatti non sa che mangiare è un atto agricolo, non conosce più né immagina i collegamenti che esistono fra l’atto di mangiare e la terra ed è perciò necessariamente passivo e acritico, in parole povere, una vittima. Quando il cibo, nelle menti di coloro che lo mangiano, non è più legato all’agricoltura e alla terra, si soffre di un’amnesia culturale pericolosa e fuorviante. L’attuale visione della futura “casa di sogno” comprende il far la spesa “senza fatica” da una lista di beni disponibili su un monitor televisivo e mangiare cibo precotto attraverso il controllo remoto.
Ovviamente tutto ciò dipende e implica una perfetta ignoranza della storia del cibo consumato. Esige che i cittadini rinuncino alla loro avversione ereditaria a comprare un maiale infilzato in uno spiedo. Desidera trasformare la vendita di maiali infilzati in un’attività onorevole e attraente. Il sognatore in questa casa di sogno per  forza non saprà nulla della qualità di questo cibo, da dove viene, di come è stato prodotto e preparato, o quali ingredienti, additivi, e residui contiene, a meno che il sognatore non si impegni in un accurato e continuo studio dell’industria alimentare, nel qual caso potrebbe anche svegliarsi e giocare un ruolo attivo e responsabile nell’economia alimentare.
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Esiste perciò una politica alimentare che, come qualsiasi altra politica, mette in questione la nostra libertà.  Ancora (ogni tanto) ci ricordiamo che non siamo liberi se le nostre menti e parole sono controllate da qualcun altro. Ma abbiamo omesso di capire che non possiamo essere liberi se il nostro cibo e le sue risorse sono controllate da qualcun altro. La condizione del consumatore passivo di alimenti non è una condizione democratica. Una delle ragioni per mangiare responsabilmente è di vivere liberi. Ma se esiste una politica alimentare, esiste anche un’estetica alimentare e un’etica alimentare, nessuna delle quali è separabile dalla politica. Come il sesso industriale, anche l’alimentazione industriale è diventata una cosa povera, degradante e meschina. Le nostre cucine e gli altri luoghi in cui si mangia assomigliano sempre più a distributori di benzina, e le nostre case somigliano sempre più a motel. “La vita non è poi molto interessante” sembriamo aver deciso. “
Lasciamo che le sue soddisfazioni siano minimali, veloci e distratte”.Attraversiamo di corsa i nostri pasti per andare a lavorare e attraversiamo di corsa il nostro lavoro per andarci a “ricreare” la sera, nei fine-settimana o nelle vacanze. E poi corriamo alla massima velocità possibile, nel rumore e nella violenza, attraverso la nostra ricreazione, perché? Per mangiare il miliardesimo hamburger in un qualche fast-food pronto a tutto per migliorare la “qualità” della nostra vita? E tutto questo si svolge nell’oblio più totale delle cause ed effetti, delle possibilità e degli scopi della vita del corpo in questo mondo.
Si può riconoscere questo oblio rappresentato nella sua verginale essenza nella pubblicità dell’industria alimentare, nella quale il cibo si porta addosso la stessa quantità di trucco degli attori. Se ci si formasse una competenza alimentare su questa pubblicità (come alcuni presumibilmente fanno), non si saprebbe se i vari alimenti siano mai stati esseri viventi o che tutti vengono dalla terra, o che sono stati prodotti dal lavoro umano.
Il consumatore americano passivo, seduto davanti ad un pasto di alimenti precotti o di fast-food, vede un piatto ricoperto di sostanze inerti, anonime, che sono state trasformate, colorate, impanate, riempite di salsa, devitalizzate, macinate, spappolate, artificializzate, frullate, ingraziosite e igienizzate al di là d’ogni somiglianza a qualsiasi parte di qualsiasi creatura sia mai vissuta su questa terra.
I prodotti della natura e dell’agricoltura sono stati resi, all’apparenza, prodotti dell’industria. Sia chi mangia sia chi è mangiato viene così esiliato dalla realtà biologica. Ne risulta un tipo di solitudine senza precedenti nell’esperienza umana, in cui chi mangia può pensare al mangiare come una mera transazione commerciale fra lui e un fornitore e poi come uno scambio esclusivamente di appetito fra se stesso e il proprio cibo. E questa strana specializzazione dell’atto di mangiare è di nuovo ovviamente benefica per l’industria alimentare, che ha buone ragioni per oscurare i collegamenti fra alimenti e coltivazioni.
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Non sta bene far sapere al consumatore che l’hamburger che sta mangiando è fatto con pezzetti di carne che provengono da quaranta manzi diversiche hanno passato gran parte della loro vita in piedi camminando in uno spesso strato dei loro escrementi in un capannone di alimentazione e contribuendo ad inquinare i corsi d’acqua locali, o che il vitello che ha prodotto la fettina nel suo piatto ha passato la vita in un box in cui non aveva lo spazio per girarsi. Inoltre, se la sua simpatia per la macellazione è scarsa, il consumatore non dovrebbe essere incoraggiato a meditare sulle conseguenze igieniche e biologiche di un campo di cavolo di due chilometri quadrati, dato che la verdura che cresce in immense monocolture dipende da sostanze chimiche tossiche proprio come gli animali confinati in poco spazio dipendono da antibiotici e altre droghe.
Il consumatore, cioè, deve essere tenuto lontano dalla possibilità di scoprire che, nell’industria alimentare, come in ogni altra industria, gli interessi principali non sono la qualità e la salute, ma il volume e il prezzo. Per decenni l’intera economia alimentare dell’industria, dalle grandi aziende agricole e dai grandi allevamenti alle catene dei supermercati e dei fast-food, è stata ossessionata dai volumi. Ha accanitamente ingrandito la scala per aumentare il volume della produzione allo scopo, si presume, di ridurre i costi. Ma con l’ingrandirsi della scala diminuisce la varietà e quando la varietà diminuisce, diminuisce anche la salute, e quando la salute declina, necessariamente aumenta la dipendenza da droghe e sostanze chimiche. Quando il capitale sostituisce il lavoro, lo fa mettendo macchine, droghe e sostanze chimiche al posto di esseri umani che lavorano e al posto della naturale salute e fertilità del suolo.
Gli alimenti vengono perciò prodotti con ogni mezzo e con ogni scorciatoia capace di aumentare i profitti. Il compito cosmetico dei pubblicitari è quello di persuadere il consumatore che gli alimenti prodotti in questo modo sono buoni, saporiti, sani e una garanzia di lunga vita e fedeltà maritale.
E’ possibile allora essere liberati dai compiti di moglie e marito di famiglia tipici della vecchia economia domestica alimentare. Ma è possibile liberarsene solo entrando in una trappola, (a meno che si consideri l’ignoranza e l’impotenza come segni di privilegio, come molti sembrano fare).
La trappola è l’ideale dell’industrialismo: una città murata circondata di valvole che lasciano entrare le merci ma non lasciano uscire la coscienza. Come si fa a scappare da questa trappola? Solo volontariamente, proprio come ci siamo entrati: recuperando la consapevolezza delle implicazioni presenti nell’atto di mangiare; reclamando la propria parte di responsabilità nell’economia alimentare. Si può cominciare con l’illuminante principio di sir Albert Howard Il suolo e la salute, in base al quale si comprende che “tutto il problema della salute del suolo, della pianta, dell’animale e dell’uomo è un unico grande argomento”.Coloro che mangiano devono capire che l’atto di mangiare avviene inevitabilmente sulla terra, cioè si tratta inevitabilmente di un’azione agricola, e il modo come mangiamo determina, in misura piuttosto consistente, il modo come viene usato il mondo.
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Che cosa possiamo fare? Ecco qui un elenco, probabilmente non definitivo:
1. Partecipare fin dove possibile alla produzione alimentare. Se si ha un giardino o anche solo una terrazza o un vaso da fiori davanti ad una finestra soleggiata, coltivarci qualcosa da mangiare. Fare un po’ di compost con gli scarti di cucina e usarlo come fertilizzante. solo coltivando alimenti per se stessi si può entrare in contatto con il meraviglioso ciclo energetico che ruota dal suolo al seme, al fiore, al frutto, al cibo, alle feci, alla decomposizione per ricominciare di nuovo. Si sarà completamente responsabili di ogni alimento che ci si coltiva da noi e si saprà ogni cosa che lo riguarda. Lo si apprezzerà completamente, avendolo conosciuto per tutto il suo ciclo vitale.
2. Prepararsi il proprio cibo. Far rivivere nella propria mente e vita le arti della cucina e dell’economia domestica. questo dovrebbe mettere in condizione di spendere meno per mangiare e dare una misura di “controllo di qualità”: si avrà perciò una conoscenza attendibile degli additivi aggiunti al cibo che si mangia.
3. Imparare le origini del cibo che si compra e comprare gli alimenti prodotti più vicino alla propria casa. L’idea che ogni località dovrebbe produrre il più possibile i propri alimenti risponde a vari criteri. Gli alimenti prodotti localmente sono i più sicuri, i più freschi e i più facili da conoscere e influenzare da parte dei consumatori.
4. Quando è possibile, trattare direttamente con un agricoltore, orticoltore o frutticoltore locale. Tutti i motivi elencati nei punti precedenti si applicano qui. inoltre, in questo modo si elimina tutto il pacco dei commercianti, trasportatori, trasformatori, confezionatori e pubblicitari che si arricchiscono a spese sia dei produttori che dei consumatori.
5. Sapere il più possibile, come autodifesa, dell’economia e tecnologia di produzione alimentare dell’industria. Che cosa viene aggiunto al cibo che non sia cibo e quanto si pagano questi additivi?
6. Sapere che cosa comporta la migliore agricoltura e orticoltura.
7. Imparare il più possibile dall’osservazione diretta e dall’esperienzadella storia vitale delle specie che si mangiano.
L’ultima proposta è particolarmente importante. molte persone sono estranee alla vita delle piante e degli animali domestici (eccetto i fiori, i cani e i gatti) quanto lo sono a quella delle piante e degli animali selvatici. E’ un peccato giacché queste creature domestiche sono attraenti in vari modi; è un gran piacere conoscerli. E anche l’agricoltura, l’allevamento degli animali, l’orticoltura e la frutticoltura fatte bene sono arti complesse, fa molto piacere conoscerle.
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Genuino Clandestino mercato di Napoli Foto di Michele Lapini
Ne consegue che c’è molto dispiacere nel sapere che esiste un’economia alimentare che degrada e violenta quelle arti insieme alle piante, agli animali e al suolo da cui vengono. Per chiunque conosca qualcosa della storia dell’alimentazione modelanrna, mangiare lontano da casa può essere una noia. Io tendo a mangiare pesce o frutti di mare invece di carne rossa e pollo quando viaggio. Anche se non sono affatto vegetariano, non mi piace l’idea che degli animali siano stati ridotti alla disperazione per far mangiare me.  Se mangio carne voglio che venga da un animale che ha vissuto una bella vita all’aperto, senza affollamenti, su pascoli abbondanti, con acqua buona e gli alberi per l’ombra. E sto diventando altrettanto difficile con le piante alimentari. Mi piace mangiare frutta e verdura da piante che so che hanno vissuto felici e sane in un buon suolo, non i prodotti degli immensi campi industriali, fabbriche a cielo aperto, che ho visto, per esempio, nella Central Valley della California. L’azienda agricola industriale si dice che sia stata organizzata sul modello della catena di montaggio della fabbrica. In concreto, somiglia più ad un campo di concentramento.
Il piacere di mangiare dovrebbe essere un piacere estensivo non quello di un mero buongustaio. Chi conosce l’orto in cui la sua verdura è cresciuta e sa che è sano, ricorderà anche la bellezza delle piante che crescono nella prima luce del mattino fra la rugiada, quando gli orti sono nel loro momento migliore. Una memoria simile è profondamente legata al cibo ed è uno dei piaceri del mangiare.La conoscenza della buona salute dell’orto per chi mangia i suoi prodotti è un sollievo, una libertà e un conforto.  La stessa cosa avviene quando si mangia la carne. Il pensiero del buon pascolo e del vitello che pascola contento, dà sapore alla bistecca.

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Qualcuno, lo , considererà sete di sangue o peggio il mangiare una creatura che si è conosciuta per tutta la sua vita. Al contrario, credo voglia dire mangiare con comprensione e gratitudine. Una parte importante del piacere di mangiare sta nella propria accurata consapevolezza e del mondo da cui il cibo deriva. Il piacere di mangiare, allora può essere il miglior mezzo a disposizione per misurare la propria salute. E questo piacere, penso, è completamente raggiungibile dal consumatore di città che vorrà fare lo sforzo necessario. Ho ricordato prima la politica, l’estetica, e l’etica alimentare. Ma parlare del piacere di mangiare significa andare oltre queste categorie.
Mangiare di pieno gusto, un gusto cioè che non dipende dall’ignoranza, è forse la più profonda rappresentazione del nostro legame col mondo. In questo piacere sperimentiamo e celebriamo la nostra dipendenza e gratitudine, dato che la nostra vita dipende dal mistero, da creature che non abbiamo fatto noi e da poteri che non comprendiamo. Quando penso al significato del cibo, ricordo sempre queste righe del poeta William Carlos Williams, che mi paiono puramente e semplicemente oneste:
Cerca pure dove vuoi,
non c’è nulla da mangiare
se non il corpo di Dio.
Le piante benedette
e il mare lo forniscono
intatto
all’immaginazione.
(articolo ripreso dalla pubblicazione su Arianna Editrice)
Grazie per i commenti.

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